“Memorie di Adriano” di Marguerite Yourcenar, interprete Giorgio Albertazzi
Nella vita, ad occhi aperti
Adesso Giorgio Albertazzi non è più l’Imperatore, adesso è diventato soltanto Adriano. Ed è una trasformazione così dolce, così umana, un’estenuazione quasi della propria persona che resta solo l’essenziale, un’anima che racconta la vita. La prima volta che Albertazzi andò in scena con Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar, regia di Maurizio Scaparro, il 31 luglio del 1989 alla Villa Adriana di Tivoli, quasi trent’anni fa, lo spettacolo aveva una grandiosità, addirittura una monumentalità, ch’era poi quella di un interprete pieno di energia, di fierezza, di un artista che aspirava all’immortalità teatrale e aveva trovato nell’imperatore lo strumento per tracciare un segno indelebile. Quella sera c’era il danzatore Eric Vu An a ballare Antinoo al Canopo, un laghetto della villa sul quale era stato posto un piano a fior d’acqua. Antinoo danzava sull’acqua. All’epoca di Adriano, erano gli uomini a camminare sui laghi. “Quando gli déi non c’erano più e Cristo non ancora, tra Cicerone e Marco Aurelio, c’è stato un momento unico in cui è esistito l’uomo solo”. Questa frase di Flaubert Albertazzi se la porta dentro dall’89 e la mette e rimette sui programmi di sala dello spettacolo perché contiene il senso stesso delle Memorie. Si sta in quel momento in cui l’essere umano è rimasto solo nell’universo, forse non felice, ma libero.
Adriano è seduto in un angolo di palcoscenico del teatro Ghione, sa che ora conta solo l’uomo. L’impero, il trono, la politica, le battaglie, persino la Bellezza che questo spagnolo con la mente d’un greco ha cercato per tutta la vita, sono niente di fronte al mistero di se stesso che contiene nella sua piccolezza le verità eterne di tutte le cose rivelate e ancora da rivelare. La vecchiaia di Adriano è un grande tramonto che si vorrebbe trattenere con un filo attaccato al sole, mentre Albertazzi è quasi fermo e quando s’alza si muove lentamente, parla con calma, tanto non c’è fretta, tutto è compiuto, anche lo spettacolo, da non trattenere e tantomeno accelerare. Albertazzi sa che l’imperfezione a volte è il passo successivo alla perfezione e non il precedente. Non proprio rifiuto della senescenza, il suicidio di Antinoo, il pastorello diventato giovane principe bellissimo, è anch’esso un atto contro il passo successivo alla perfezione. Per questo l’imperatore capisce, la filosofia diventa un mondo di parole vane se non s’incarna nella ricerca dell’armonia assoluta. Allora l’amore di Adriano per Antinoo si fa leggero come un guscio di noce sulle acque di un lago limpido: “Non ho il diritto di avvilire quel raro capolavoro che fu la sua fine; devo lasciare a quel fanciullo il merito della propria morte”.
Finalmente si fa la quiete perché è sera. Evelina Meghnagi intona un canto malinconico; passa la moglie di Traiano, Plotina, che visse con Adriano un amore aereo, platonico; le gambe non sorreggono più l’imperatore ma resta la fortuna di muoversi con le parole, che assumono un accento inesorabilmente onesto, sincero e senza più dolore né rimpianti, nemmeno il rimorso di non essere stati prima ciò che si è adesso. La memoria è un viaggio siderale verso un futuro ignoto, verso l’avventura di un altro impero, da osservare stavolta, come un uomo, e non da conquistare come un imperatore: “Cerchiamo di entrare nella morte ad occhi aperti” è l’ultima battuta di Adriano.