“Finalmente sola” di e con Paola Giglio al teatro Due di Roma

Finalmente sola

L’amore al tempo delle botte

L’assolo teatrale è un genere a parte che meriterebbe una sua “Storia del monologo”, un po’ come nella scienza in cucina (e l’arte di mangiar bene) esistono i manuali di pasticceria.
Una volta le stelle della scena, spesso attempate, facevano le serate d’onore; negli anni Settanta-Ottanta si è passati al soliloquio di protesta con la sottocategoria del one-woman show sulla coppia e il rapporto uomo – donna (vi eccellevano Franca Rame e Lucia Poli) in cui il privato era politico; poi abbiamo avuto i cabarettisti, da Paolo Rossi a Paolo Hendel e vari altri, arrivati alla tragica constatazione che il teatro non cambia il mondo e che alla realtà si può solo sputare in faccia. Questo è un capitolo intitolabile “I monologhi dello sputo” ai quali succedono “I monologhi della vagina” che però sono un’americanata in cui gli ideali di liberazione della donna assumono una configurazione filosofica clitoridea. Nel frattempo in Italia è incominciata l’onda del teatro di narrazione, diviso in “prima generazione” o teatro civile – l’attore-tabloid racconta com’è andata perché i giornali non lo dicono, esponente di punta Marco Paolini – e seconda generazione, capofila Ascanio Celestini, o “teatro delle storie di mio nonno”. Adesso, almeno a girare per i palcoscenici romani, si sta nel monologo generazionale o “dei fatti miei e dei miei coetanei”. Qui il politico è privato e si spera che s’è fatto il giro completo, altrimenti non resterà che far parlare gli ombelichi.
Vero che Paola Giglio, autrice e interprete di Finalmente sola (al teatro Due con regia di Marcella Favilla), cerca di dare un carattere più generale alla sua storia di una ragazza alle prese con i vari fidanzati, però si resta in un ambito di piccole esperienze personali. Tutto sommato il teatro avrebbe l’ambizione più grande di raccontare il mondo attraverso storie paradigmatiche o metaforiche. Non le vicende del singolo ma la sintesi della realtà umana che una vicenda contiene. Il testo di Giglio cerca di elevarsi in questo senso quando la protagonista diventa succube della violenza psicologica e in seguito fisica di un suo fidanzato, anche se poi il tema dello spettacolo non è il femminicidio, piuttosto la dinamica di una relazione amorosa che scivola verso la sofferenza e la patologia. In questo la mano non è delle più felici, si resta in superficie, si confonde la profondità con la descrizione. L’attrice però è abbastanza brava, soprattutto nella seconda parte di quest’ora di monologo, ad ovviare con la propria prova alle fragilità del suo stesso testo. Non possiede una gran presenza scenica (e questa non s’impara) ma ha tecnica, senso del ritmo, sa cantare, muoversi, costruire il personaggio. È facilitata nella sua arte dall’essere una donna: per motivi difficili da individuare e legati, chissà, alle congiunzioni astrali, a una definitiva superiorità femminile, alla comparsa nel pantheon contemporaneo dell’antica Grande Dea madre, le giovani attrici sembrano in linea di massima, e secondo un’osservazione empirica, più brave teatralmente, più preparate, dei colleghi e coetanei maschi. Voce, corpo, tecnica recitativa, permettono loro di offrire spettacoli confezionati con maggior cura, anche se un po’ conservatori nella loro correttezza formale. Il fenomeno ha l’aria d’essere alquanto indipendente dalla provenienza formativa di queste artiste, accademie e scuole varie di teatro, anche dalle compagnie amatoriali vengono fuori in certi casi nuove attrici interessanti. Le ragazze salveranno persino la “Silvio D’Amico”, dove Paola Giglio si è addestrata al mestiere, da una mesta fine nel robivecchiato dell’attoralità in cui rischia di finire assieme ai suoi allievi maschi.

Marcantonio Lucidi,
Stampa Stampa

I commenti sono chiusi.