Al teatro dell’Orologio di Roma, “L’ora accanto” di Filippo Gili, regia di Francesco Frangipane
Il ritorno del padre
Nel 1973 Longanesi pubblicò un libro che si intitolava molto semplicemente La reincarnazione, una raccolta di testi sul tema di grandi pensatori, artisti, filosofi, letterati, scienziati, psicanalisti, da Platone ovviamente ad Einstein, da Giordano Bruno a Salvador Dalì, Carlyle, Goethe, Victor Hugo, Huxley, Jung, Planck, Schrödinger, Fromm, eccetera. Gli intenti dei due curatori (Joseph Head e S. L. Cranston) erano chiari: svincolare la reincarnazione dalla melassa dell’esoterismo, restituirle la sua dignità di oggetto concettuale degno di un’indagine rigorosa e rintracciarne il percorso nella storia del pensiero.
Allo stesso modo, depurata d’ogni sospetto di superstizione, Filippo Gili nel suo dramma L’ora accanto tratta la reincarnazione – o trasmigrazione delle anime, metempsicosi, preesistenza, immortalità, come la si vuol chiamare (per quanto questi termini presentino significati diversi) – o ancora resurrezione, la parola più corretta per questo spettacolo in scena all’Orologio di Roma con la regia di Francesco Frangipane. L’assenza del ghirigoro occultista e dello sproloquio metafisico è molto tranquillizzante perché indica che non si sta tentando di raccontare favolette o personali convinzioni ma si fa teatro attraverso la costruzione di una situazione e lo studio delle sue conseguenze. Rigore innanzitutto, anche in scena. La domanda che si pone il testo è la seguente: che succede in una famiglia che ha perso il padre se uno dei quattro figli, fisico quantistico, riesce a resuscitarlo, sia pure per un’ora? Niente a che vedere con l’epilogo del film di Steven Spielberg A. I. – Intelligenza artificiale in cui degli evolutissimi androidi riportano in vita per un giorno la madre putativa del quasi umano robot bambino.
Questo è invece un dramma familiare che lavora in modo naturalistico su una situazione surreale per definire i rapporti interni a un gruppo (umano e vivo). Talmente naturalistico è lo spettacolo che i sessanta minuti di ritorno del padre dalla morte sono scanditi da un orologio.
Ora, le scelte di un autore non sono contestabili bensì funzionano o non funzionano sul piano del congegno drammaturgico. Altrimenti il discorso si fa ideologico. Quindi è soltanto una specie di nostalgia per gli innumerevoli e sorprendenti svolgimenti che potevano aprirsi di fronte a questa magnifica idea a far pensare a un’occasione non pienamente sfruttata. Perché intrappolare questa trovata drammaturgica dentro una serie di recriminazioni e rinfacci familiari appare quasi una autolimitazione di Gili di fronte alla propria fantasia. L’idea qui si rivela più importante del suo svolgimento, peraltro condotto con mano esperta e con l’aiuto di una regia assai abile nel registro naturalistico.
La scena è a pianta quadrata, posta in mezzo a due ali di pubblico, scelta non calligrafica che rende più realistica l’azione. I quattro fratelli sono seduti a tavola, tre di loro chiacchierano e uno sta in silenzio. Tutto è molto normale, molto quotidiano quindi la suspense aumenta. La tecnica di Gili sta nello scaricare in un colpo solo tutti gli elementi del dramma (e prendersi poi il tempo necessario a svilupparlo) attraverso un intervento improvviso del quarto, il quale spiega come si può scientificamente fare risorgere il padre. Peccato che l’attuale modalità, una moda in effetti, di recitazione naturalistica induca l’interprete Vincenzo De Michele a mormorare le parole, soprattutto nel momento importante, come se le battute fondamentali gli dovessero cascare sulle ginocchia, fenomeno peraltro facile a prodursi nella sala dell’Orologio, certo non dotata di un’acustica eccellente. Sicché alcuni passaggi d’una spiegazione assai interessante di fisica quantistica quasi si perdono. È il risvolto negativo, peraltro risolvibile, del recitare “come se si stesse nella vita” quando invece si sta a teatro. Non c’è dubbio tuttavia che il gruppo di attori, compreso De Michele, è ferrato, ben dentro le onde di emozioni che il testo suggerisce, alti e bassi di gioia, rabbia, stupore, paura, commozione, angoscia. Le luci, molto ben fatte, seguono queste onde interne al gruppo, scelta che non è propriamente coerente con l’impostazione generale dello spettacolo ma è assai efficace, quindi la coerenza si dia pace e sappia che il teatro non è il suo regno. In scena lavorano nei ruoli dei fratelli, oltre al già citato De Michele, Massimiliano Benvenuto, Silvia Benvenuto, Vanessa Scalera; la madre è Michela Martini, il padre Ermanno De Biagi. Nessuno sembra più bravo dell’altro, la regia ha voluto da loro una prova compatta e omogenea.