“Vangelo” di Pippo Delbono all’Argentina di Roma
Il teatro dello squallore
Stavolta non ci casca nessuno. Se ne accorge anche Pippo Delbono che a un certo momento del suo Vangelo sussurra nel microfono: “A Losanna ridevano”. A Roma, al teatro Argentina, non ride nessuno. Quel che è peggio nessuno piange e al termine della “prima” gli applausi sono di circostanza, malgrado il regista abbia allestito la solita sua torta multistrato cucinata con gli emarginati e i malati psichiatrici che porta in scena – l’ex clochard Nelson, il povero ottantenne Bobò microcefalo sordomuto, il giovane down Gianluca – oltre a un rifugiato afgano, qualche attore italiano e ad alcune attrici croate perché lo spettacolo è nato a Zagabria come opera contemporanea sulle musiche di Enzo Avitabile e viene qui proposto in forma teatrale.
Eppure la rappresentazione era incominciata quasi bene, un po’ alla Pina Bausch, e la prima scena è un’Ultima cena con dodici attori elegantemente vestiti e seduti in fila su delle poltroncine rosse. Un avvio che dà speranza perché è bene che Delbono si rifaccia a una grande artista della scena mondiale. Poi però irrompe lui con un microfono e da quel momento in poi non se ne andrà più. Urla, canta, balla, parla, sproloquia, si agita. È un esibizionismo da mattatore della sperimentazione, da capocomico della finta innovazione, è una specie di divismo da vecchio teatro borghese travestito da avanguardia. Ma i vecchi capocomici erano dei superprofessionisti della scena, Delbono è un performer con chiari deficit di mestiere nell’uso del microfono e con una memoria che si presume debole se è costretto a girare per il palco con dei fogli da leggere. Dentro a quei pezzi di carta ci ha messo Pasolini e Sant’Agostino, Matteo, Marco, Luca, Giovanni e tanta roba sua nella quale spiattella il proprio difficile rapporto con la religione. Non c’è in lui nessun dubbio sul fatto che la sua esperienza personale è di un interesse superiore, che deve essere necessariamente esposta al pubblico perché lui è un artista. Ma un artista che si sforza a tal punto di esserlo, che con tanta ostentazione si affanna a dimostrarlo, si rivela uno pseudoartista.
Questo vangelo secondo Pippo che si mette delle corna rosse in testa per fare il diavoletto nasce da una volontà di sua madre che qualche giorno prima di morire gli domandò: “Perché non fai uno spettacolo sul Vangelo? Così dai un messaggio d’amore”. “E io ho pensato subito – scrive Delbono nel programma di sala – alle recite che facevo da piccolo nella parrocchia, dove interpretavo Gesù bambino con i riccioli biondi, innamorato anch’io come lei di quel mondo di preti, di chiese, di incensi, di rappresentazioni teatrali”.
Tutto si mischia, la mamma, i prelati, le suore, l’omosessualità, il diavolo, il peccato, la redenzione: ne viene fuori un cattolicesimo oscuro, inferico, bigotto, da afrori di sacrestia, da corpi asserviti a una squallida materialità. È un teatro dello squallore che si svolge per successioni di scene una dietro l’altra come spot pubblicitari, il down in un lettino per infanti, il microcefalo che suona il violino, il rifugiato afgano che racconta la sua traversata in mare e la morte del suo migliore amico, tragedia ormai purtroppo banale, elementare parallelismo col Cristo in croce che lo sfruttamento teatrale riduce a raccontino edificante.
Nulla c’è di poetico perché nulla s’innalza e si sublima, il dolore e la morte restano in questo Vangelo dei bassi fenomeni di degradazione corporale. È inutile che Delbono vada dicendo al pubblico che la sua anima è triste, perché molte sono le anime tristi nel mondo, e la sua non ha più valore delle altre, più diritto di parlare delle altre. Solo l’arte e la poesia accreditano. Grida per palco e platea la parola “libertà” e manda i suoi attori al microfono a urlare la risposta alla domanda di Ponzio Pilato: “Chi volete che liberi? Cristo o Barabba?”. Tutti sanno com’è andata. Ma non è la parola “libertà” oggi quella che conta, né “uguaglianza”, ma la terza della Rivoluzione francese, che negli ultimi due secoli è stata ignorata. “Fraternità” era invece l’elemento catalizzatore delle prime due e ora Papa Francesco la trasmuta nella misericordia del suo Giubileo. Ecco, manca la misericordia in questo spettacolo, oltre a tutto il resto, la bellezza per esempio. “La bellezza è estasi – sosteneva Somerset Maugham – è semplice come il desiderio del cibo”. Ecco, manca la semplicità, manca l’estasi.