“Truculentus” di Plauto, regia e adattamento di Vincenzo Zingaro. Al teatro Arcobaleno di Roma
Una risata li disseppellirà
Le commedie di Plauto si recitano poco perché sono in genere relegate ai cartelloni degli spettacoli estivi negli anfiteatri greci e romani. Oppure diventano terreno di caccia di filodrammatiche che fanno commedie così come la sora Maria mette a bollire i cavolfiori appestando tutte le scale del palazzo.
Ad evitare l’equivoco, ché Plauto è invero il più bravo commediogrado dell’Antichità (o di quel che è pervenuto a noi), Vincenzo Zingaro al teatro Arcobaleno ha messo in scena un Truculentus tutto suo, molto rimaneggiato e trasposto nella seconda metà degli anni Trenta in Sicilia. Ne ha ricavato che siccome, con gli opportuni accorgimenti, i personaggi plautini e le sue storie popolari di corna, prostitute, miles gloriosus che diventano gerarchi e senex trasformati in podestà sono perfette per la provincia sicula tutta eja eja alalà e case di tolleranza, ecco che il vecchio Tito Maccio si mostra indiscutibilmente come uno dei nostri. Se si vuole, come uno dei nostri nonni, ancora visibili in qualche album di foto, impettiti e con l’orbace. O si vuol far credere che qua nessuno è stato fascista e con la quantità di bordelli che c’erano nessuno fu figlio di puttana?
A molti gli spettacoli di toghe, tuniche, coturni e gladi di latta ricordano un po’ troppo certe patetiche recite all’oratorio con Gesù bambino, la Madonna e il legionario romano ma la verità è che s’è un po’ persa la capacità di andare oltre il posticcio per rintracciare le immutabili dinamiche delle relazioni fra esseri umani. Tutti si sentono molto adulti e chiedono cose serie persino quando si tratta di comicità, sicché quando si propone loro il più bel gioco d’infanzia che è il travestimento, ritengono di non essere presi sul serio. Cosa strana in una società dove la gran parte del prossimo si traveste – da artista, politico, banchiere, intellettuale, grand-commis di Stato, da travestito anche – tutti pronti a calzare i coturni del mestiere che si son dati, sovente per occasione o fortuna. Forse è per questo che si è sospettosi riguardo le commedie di Plauto, questo abilissimo incisore di tipi e di caratteri: ci ricordano che siamo delle maschere ridicole, nella maggior parte dei casi degli individui posticci e nient’affatto originali e che saremmo più onesti se portassimo alla cintola spade di latta.
In questo Truculentus anni Trenta, la bella meretrice Frenèsia, (nell’originale plautino Fronesio ma in tempi di confusione fra generi è bene tener ferma l’idea che la protagonista è una femmina) se la cava assai bene nel governare un gruppo di spasimanti che le girano attorno e nell’intrigare per sottrarre loro denari. Le dà man forte la tenutaria Anastasia che parla con una marcata calata emiliana, di quelle che si sentono a Sasso Marconi, non imbastardita dal turismo di Rimini. C’è infatti qualcosa di felliniano nell’allestimento, una specie di piacere dell’avanspettacolo, a cui peraltro con Plauto si arriva facilmente, e c’è una certa ingenuità delle battute e della comicità che però Zingaro discioglie nel sentimentalismo e in un epilogo malinconico sotto i primi scoppi di bombe della seconda guerra mondiale. Questo è l’aspetto della regia che meno convince perché Plauto insegna che nel teatro popolare non bisogna avere nessun tipo di verecondia. È controproducente imborghesire ciò che borghese non è, anche se il pubblico pare ancora convinto di appartenere alla borghesia in un’epoca in cui essa non esiste più ed è diventata quando va bene un’informe classe media e quando va male sovraproletariato con delle pretese. Allora se le platee popolari e borghesi sono scomparse, tanto vale fare il teatro che si ha dentro.
Se Annalena Lombardi, che fa Frenèsia, si fosse presentata a un provino davanti a Fellini, forse sarebbe stata tenuta in considerazione: ha le curve e una certa pudica sfrontatezza che in scena la rendono donna di coscia e di speranze; divertente la tenutaria emiliana di Laura De Angelis, ha gli occhietti intriganti di chi sa che i maschi cretini si prendono per il sedere e quelli presuntuosi per il basso ventre. Fabrizio Passerini fa il servo sciocco e dimostra d’avere efficaci tempi comici. Con loro in scena lavorano Piero Sarpa (uno degli spasimanti), Rocco Militano (Truculento), Giovanni Ribò (il generale fascista che vuole un figlio dalla meretrice), Ugo Cardinali, (il podestà) e Mario Piana (il guercio, l’altro spasimante).