“Cercando segnali d’amore nell’universo” di e con Luca Barbareschi all’Eliseo di Roma

Luca Barbareschi in 'Cercando segnali d'amore' DSC_7583.JPG MEDIA Foto di Bepi Caroli

La fatica di essere narcisi

Luca Barbareschi all’Eliseo ha messo su uno spettacolone con la pregevole orchestra del sassofonista Marco Zurzolo, la vocalist Angela Barbareschi, le magnifiche luci di non si sa chi perché sulla locandina non c’è scritto, la regia di Chiara Noschese, tutto questo ambaradam molto professionale e luccicante, saltellante e festoso, allegro e spumeggiante che pare in certi momenti di stare in uno show musicale americano, mancano soltanto la fila di ballerine di Broadway e il danzatore nero che fa la spaccata precipitando da un trapezio, insomma tutto questo carosello per raccontare in scena la sua autobiografia.
Si intitola Cercando segnali d’amore nell’universo e dentro ci sta un po’ di tutto: la mamma, il papà, la tata sarda, le figlie, le mogli, la nascita a Montevideo, l’infanzia a Milano, il circo di Moira Orfei, varie goduriose femmine, la diva francese che se lo è portato a letto. Inoltre: gli esordi teatrali, le avventure newyorchesi, i formidabili incontri con Lee Strasberg e le celebrità da jet set anni Cinquanta – Sessanta – Settanta e oltre, Ottanta, Novanta, Duemila, Duemila e cento, che s’incarnano davanti a lui, oplà, ecco Mick Jagger, David Bowie, John Lennon, Elia Kazan, David Mamet, Oliviero Toscani. E ancora: i famosi di area più circoscritta, italica, alla Novella 2000, Eva 3000, uno, nessuno e centomila e opqua, ecco Maurizio Merli e Mario Merola. Manca solo il suo periodo politico, l’adesione al Popolo della libertà, l’amicizia con Berlusconi, il Parlamento, e ancora oplì l’adesione a Futuro e libertà di Gianfranco Fini per finire infine nel gruppo misto perché per fortuna sua e di molti altri in Italia non esiste il vincolo di mandato. Eppure sarebbe stato gradito alla platea della “prima” – era accorsa una quantità di starlette, attricette, giovinette, mezzecalzette, reginette e commedianti, benestanti, benpensanti e malpensanti, comandanti, aspiranti comandanti, villeggianti, intriganti – qualche aneddoto sui peti di Palazzo. Perché Barbareschi di flatulenze parla a lungo quando svela un incontro erotico con la bambolona francese naufragato nel rumor di venti inconfessabili. La platea si sganascia e ulula di piacere al divo reo confesso di possedere un intestino e sbatacchia la testa di gioia e freme per sentirne un’altra. L’attore sfrutta ogni possibilità comica, sa che il suo rifugio è l’autoironia, robusta corda a cui aggrapparsi per non cadere nel patetico e ne srotola in quantità, sicché la corda diventa lo spettacolo, che è fatto bene, regia abile, tutto funziona, e l’impiccato si salva.
Non si può infatti sostenere che si tratti dello show d’un uomo modesto, riflessivo e malinconico che ragiona sulla caducità dei destini umani e sulla transitorietà della gloria. È uno strepitoso cocktail di autocelebrazione, una bottigliata di narcisismo, un’ubriacatura di mattatorato che scaraventa Barbareschi di qua e di là per la scena, su e giù per terra, sdraiato, in piedi, sottosopra e soprassotto. Che fatica parlare di se stessi, due ore così, a monologare a mitraglia, suonare la chitarra, saltare, correre e agitarsi. Niente di più energetico e generoso che l’autostima, con essa si conquistano le Olimpiadi, figurarsi una platea romana di io, io, io che si riconosce in Barbareschi, lo condivide, si identifica in lui, senza sospettare un istante che tutte, o quasi tutte, le biografie, non solo le loro, sono interessanti, uniche, speciali e che ogni vita è un’avventura degna d’essere raccontata se si è bravi a farlo.
L’orchestra suona Father and son di Cat Stevens e Autumn leaves di Bill Evans, il papà di Barbareschi è morto ballando la pachanga attaccato a una ballerina brasiliana come sognavano di fare gli inviati speciali dei giornali mandati nel Sud America delle dittature anni Cinquanta – Sessanta. Alla fine dello spettacolo ci sono solo due possibilità: o farsi prendere dalla frenesia di saltare su un aereo per New York e andare a bere whisky allo Studio 54, che non esiste più, assieme a Truman Capote, che non c’è più. O tornare a casa a leggere La commedia umana di Honoré de Balzac. A ciascuno la scelta secondo la propria indole.

Marcantonio Lucidi,
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