In scena alle Stanze Segrete Ennio ed Emiliano Coltorti interpreti di “Shakespeare in love (with Marlowe)” di Vittorio Cielo
Shakespeare, Marlowe e la peste del teatro
Il titolo del testo che Ennio Coltorti ha messo in scena nel suo teatro di Trastevere Stanze segrete è poco elegante: Shakespeare in love (with Marlowe). Siccome non si tratta di una parodia, si ha l’impressione che l’autore, Vittorio Cielo, voglia mettersi sulla scia del capolavoro di Tom Stoppard. Un po’ come chiamare un proprio scritto “Rosencrantz e Guildenstern sono vivi” oppure “Aspettando Godot (che non verrà)”.
Il testo offre ai due attori in scena – lo stesso Coltorti e suo figlio Emiliano – una tentazione irresistibile: non di interpretare i personaggi di Marlowe e Shakespeare, Tamerlano o Amleto, ma proprio i due grandi drammaturghi elisabettiani. Ghiotta la possibilità di restituire i due geni stessi, dalle vite romanzesche, anzi drammatiche, magnifici come le loro creazioni, personalità potenti quanto i loro personaggi. Il testo racconta dell’incontro fra Marlowe e Shakespeare e degli intrighi che li coinvolgono, il primo agente segreto di Sua maestà la regina Elisabetta, destinato a morte violenta e misteriosa; il secondo più giovane, affascinato dalla grandezza e dalla personalità di Christopher, ma avviato a grandezza maggiore. Il testo di Cielo cerca di tenere insieme il rapporto fra i due con il racconto degli intrighi e delle nefandezze a cui la prossimità al potere conduce. Ma il suo è un meccanismo forzato, poco chiaro e chiede allo spettatore uno sforzo di comprensione ch’egli non è obbligato a dare.
Coltorti padre nel ruolo di Marlowe è come sempre un attore di bel mestiere e offre anche un’interpretazione “en travesti” di Elisabetta gotica, notturna, torva, una stregonessa dominatrice forgiata dai suoi interminabili sabba con il potere. Però alla sera della “prima”, innervosito evidentemente dalle difficoltà della messinscena – di cui dopo lo spettacolo parlerà in una conversazione con il pubblico – Coltorti ogni tanto buttava via le battute, come si dice in gergo, pur ritagliandosi un suo Marlowe icastico. Emiliano Coltorti, nel ruolo di Shakespeare, non sembra avere ancora l’esperienza del padre e viene penalizzato da un testo che svuota di forza il personaggio. Seppur giovane, William non era certo soltanto un devoto e trepidante ammiratore di Marlowe, un gradevole signorino di ingenui sentimenti e di ordinarie ambizioni artistiche ed esistenziali.
Nel testo si rievoca l’epidemia di peste che provocò la chiusura dei teatri negli anni 1593-94. Tema quanto mai attuale: a causa della peste dei cervelli politici e ministeriali, che ha prodotto un disgraziato decreto di riordino delle sovvenzioni alla prosa, a Roma e in Italia numerosi palcoscenici sono prossimi la chiusura. Delle enormi difficoltà di fare teatro ha parlato Coltorti dopo lo spettacolo, della sua stanchezza per le condizioni di lavoro, dello scoramento di fronte alla distruzione apparentemente irrefrenabile della scena italiana. Naturalmente la mancanza di soldi di una nazione arretrata e di uno Stato ridotto in povertà dalle bande criminali che lo sorvegliano e spesso lo controllano, costringe a una diminuzione dei contributi pubblici al teatro. Il problema maggiore sta nelle modalità di riduzione, attraverso le quali la politica agisce con incompetenza intellettualmente delittuosa e iniquità clientelare. Però la catastrofe del teatro italiano è parzialmente colpa degli stessi teatranti i quali, nella loro maggioranza, si sono compromessi con il potere o hanno sperato di compromettersi, si sono fatti trovare in fila alla sua porta, lo hanno blandito e soprattutto servito quando è stato loro permesso. Invece di unirsi, per magari discutere dopo un’eventuale vittoria del bottino da spartirsi, hanno replicato il più sgradevole vizio italiota, il clan, sovente artatamente confuso con la compagnia, ancor di più con la compagnia sperimentale (o d’innovazione), troppo spesso di cortigiana confessione sinistrorsa.
L’Italia è una società tribale moderata da una corruzione e da un clientelismo finalizzati allo scambio di favori e prebende fra le varie tribù e fra queste e la politica. Nel caso della gente di teatro, la situazione è stata ulteriormente aggravata dal disprezzo che le varie combriccole nutrono l’una per l’altra, dalla loro claustrofobica chiusura, dal marchio d’indegnità con cui hanno illegittimamente bollato chiunque si discostasse dai loro minuscoli credo artistici, poetici, estetici, politici. Nella speranza di salvarsi, i clan teatrali si sono venduti senza accertarsi del prezzo e adesso la maggior parte di loro scopre che il valore ad essi attribuito dal potere è zero. E hanno trascinato nella catastrofe chi non voleva stare al gioco, per onestà intellettuale o perché realisticamente lo riteneva perdente.