La “Tempesta” di Shakespeare con Giorgio Albertazzi al Ghione di Roma

La Tempesta

Prospero nella grotta della Grande Opera

Ci sono degli spettacoli felici in cui lo spirito del personaggio coincide con l’anima dell’interprete. Il fenomeno non ha niente a che vedere con le varie tecniche di recitazione – stanislavkiana, brechtiana, biomeccanica e quant’altro inventato nel Novecento. Si tratta di un incontro fra dimensioni sovrasensibili dell’essere, essendo lo spirito del personaggio vero e l’anima dell’interprete reale. Giorgio Albertazzi e Prospero, distinti e uniti, sono in scena al Ghione in una Tempesta di Shakespeare diretta da Daniele Salvo che taglia l’originale di tutte le digressioni comiche, elimina il personaggio di Trinculo e concentra lo spettacolo sulla magia e sulle energie misteriose che governano il mondo dell’inesplicabile.
Prospero-Albertazzi è seduto su una sedia a rotelle che diventa il centro dello spettacolo e trasforma una necessità – l’attore a 92 anni deve risparmiare le forze – in un significato. Prospero è un motore immobile che muove la natura, scatena le tempeste, governa il destino degli uomini. Attorno a lui degli spiriti bianchi e incappucciati manovrano la sedia del mago e rappresentano i suoi poteri esoterici, o meglio la sua volontà. L’energia di Prospero, la magia operativa che agisce nella materia e produce fenomeni è Ariele, lo spirito dell’aria, il servitore vestito di nero che indosserà il bianco quando avrà raggiunto la libertà, passando dallo stadio alchemico di nigredo (la notte, l’inverno) ad albedo (l’aurora, la primavera). Ariele è il succubo, il sottomesso, l’essere in forma di donna che, secondo le antiche credenze, aveva nella notte rapporti carnali con uomini; il suo opposto è lo spaventoso Calibano, il selvaggio e deforme figlio della strega Sycorax, è l’incubo, il demone che giace sul dormiente e opprime la persona nel sonno. Ma desto è Prospero e la sua arte rende servitori e infine liberi oppure schiavi e per sempre perduti.
Fra “l’io voglio” e “l’io posso” del mago si svolge tutta la rappresentazione di questo dramma esoterico di Shakespeare che la regia imposta su una visualità caravaggesca (e non solo, Caliban qui ha una deformità alla Velazquez) e su atmosfere a volte fanciullesche. Quando Ferdinando, figlio del re di Napoli, dichiarerà il suo amore a Miranda, la figlia di Prospero, lei correndo andrà a nascondersi in un piccolo armadio da camera infantile, come una Alice Liddell di Lewis Carroll. D’altronde Shakespeare ci informa che Prospero, il legittimo duca di Milano, è stato esiliato dodici anni prima sull’isola dove si svolge il dramma, quando Miranda ne aveva due. Ora quindi ne ha quattordici, poco più di una bambina. Adesso che la tempesta scatenata dal mago ha fatto naufragare sull’isola l’usurpatore Antonio, assieme al suo complice, il re di Napoli Alonso, e a Ferdinando, la grande opera può incominciare ed è il ristabilimento dell’equilibrio perduto e il ritorno della Storia nel fiume naturale delle cose e del tempo, sancito dall’amore di Ferdinando e Miranda. Perché l’equilibrio non è mai statico ma evolve verso un nuovo equilibrio come la camminata di un corpo umano, il cui passo è l’inizio di una caduta scongiurata dal passo successivo.
Albertazzi è semplicemente un grande attore, un finissimo dicitore, uno stregone della lingua pari al Prospero padrone degli elementi. Ha l’arte tutta particolare di rendere importante ogni battuta, le conferisce imponenza, però mai retorica. Sta sempre un attimo prima del solenne, nel regno del necessario, come Prospero si ferma alla frontiera della magia nera.
Tutta la compagnia di attori gira attorno al protagonista con una coerenza stilistica e interpretativa che rende compatto l’allestimento ma l’Ariele di Melania Giglio ha una sua personalità distinta, infantile e punk, ribelle e giocosa che dà un tono di imprevedibilità alla rappresentazione. Selene Gandini è una Miranda delicata, curiosa e timida come deve essere un’adolescente in equilibrio fra la bambina e la donna. Perché La Tempesta è, fra le altre cose, un dramma dell’equilibrio che anche le luci di Luca Palmieri sanno restituire: sono dei blu violacei che virano sul cremisi, tagliati da piazzati bianchi, e che sembrano indecisi fra il buio e la luce, non alba né tramonto, ma semioscurità di grotta, notturni di incantesimi ambigui, sospesi fra il bene e il male, incerti fra Scilla e Cariddi.
In scena anche Marco Imparato (Ferdinando) Federigo Ceci (Caliban /Antonio), Massimiliano Giovanetti (Gonzalo), Mario Scerbo (Alonso), Simone Ciampi, Francesca Annunziata Giovanna Cappuccio. Scene di Fabiana Di Marco, costumi di Daniele Gelsi. Al teatro Ghione fino al 13 dicembre.

Marcantonio Lucidi,
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