“Grand guignol all’italiana” di Vittorio Franceschi. All’Eliseo con Lunetta Savino
Grand guignol all’amatriciana
Grand guignol all’italiana è un testo che dormiva da quindici anni in un cassetto del suo autore, Vittorio Franceschi, e forse era bene che lì restasse. Invece lo ha tirato fuori il regista Alessandro D’Alatri e lo ha spiattellato sul palcoscenico del teatro Eliseo di Roma. Franceschi è un bravo autore ma siccome persino Goldoni ha scritto roba modesta, certe volte astenersi non è peccato.
Del grand guignol qui non c’è nulla a parte il finale dove tutti i personaggi vengono ammazzati a pistolettate. Forse perché è “all’italiana”, come dire, all’amatriciana. Eppure Franceschi sa cos’è questo genere di teatro francese che ha avuto i suoi esordi fra fine Ottocento e primi Novecento per poi spegnersi nel corso del secolo: “Si caratterizza come teatro a tinte forti – scrive in una nota l’autore – anzi fortissime, farsesco e macabro, dove scorrono in abbondanza – insieme al sangue e in barba al “bon ton” – grossolanità, violenza, cinismo, storie da cronaca nera con squartamenti e lacrime, truci vendette, eros e bordello, in uno srotolarsi dinamico di intrecci da drammone popolare, senza lieto fine. Tutto ciò con effetti, a volte, di involontaria e grottesca comicità. L’aggettivo “granguignolesco” che tutti conosciamo e adoperiamo, affonda le proprie radici in quella paccottiglia lì”.
Dire che si fa il grand guignol quando non lo si fa, significa fuorviare il pubblico, perché non sta scritto nella Costituzione che i cittadini debbano essere edotti d’ogni corrente teatrale inventata dagli uomini, soprattutto quando si tratta di generi ormai desueti.
Nel frattempo, che è un frappè di tempo, in scena si chiacchiera e si deve arrivare oltre l’intervallo per capire la ragione per cui i personaggi sono lì: vogliono partecipare a un concorso che mette in palio venti milioni di euro per chi scriverà il nuovo inno nazionale. Ogni tanto c’è qualche battuta buona ma casca come dal pero anche perché D’Alatri non dimostra d’avere mano per la farsa, che tale questa è. Quel che deve fare una regia in uno spettacolo comico è di tenere sempre il pubblico in tensione, sul bordo dello sghignazzo, in modo che quando arriva la battuta buona, la risata generale sia liberatoria come una promessa mantenuta. Si chiama regia brillante. Il testo è volutamente farcito di luoghi comuni che dovrebbero dare idea d’uno spaccato d’Italia becera, cafona e incolta: “Dante è Dante”, “Bisogna essere moderni, l’Italia è cambiata; “Nel mondo c’è molta violenza, però ci sono anche persone sensibili”, “Ci sono minoranze che stanno emergendo e bisogna tenerne conto” e via di questo passo.
Insomma il testo sarebbe una piccola “comédie de moeurs”, uno commedia di critica dei costumi, affidata a delle figurine sbiadite che sono una colf, un salumiere, una guida turistica con una moglie isterica che lo tradisce e un postino effeminato. Ma né l’autore, né la regia né tantomeno gli attori riescono a costruire dei personaggi, a dare loro un minimo di spessore e credibilità. Tutta la compagnia è deludente, priva di ritmo, di tempi comici. Il più bravo di tutti è il fonico che aziona sempre al momento giusto la registrazione del cane di casa che abbaia ferocemente. Ma la locandina non dice il suo nome. Mentre riporta quelli degli interpreti, che è giusto nominare visto che erano presenti ma sulla prova dei quali è bene, dopo tanto inutile chiacchiericcio in scena, fare silenzio. In ordine strettamente alfabetico sono: Umberto Bortolani, Carmen Giardina, Sebastian Gimelli Morosini, Andrea Lupo e Lunetta Savino.