Alla Sala Umberto “Figli di un dio minore” di Mark Medoff, regia di Marco Mattolini

Figli di un dio minore

Romeo e Giulietta nel mondo della logopedia

Figli di un Dio minore è un famoso testo teatrale dell’americano Mark Medoff, trasposto cinematograficamente nell’86 con l’interpretazione di William Hurt e Marlee Matlin, che parla della vita dei sordi. Però oggi il bigottismo moderno impone che si dica non udente, diversamente abile, non vedente, paraplegico invece di paralitico e va bene anche non trombante, come suggerisce Renzo Montagnani a Ugo Tognazzi in Amici miei atto II. Tuttavia nello spettacolo, in scena alla Sala Umberto, si pronuncia la parola “sordo” in continuazione, sordo qua sordo là, io sono sorda, tu non sei sordo, non capisci i sordi, ma sei sordo? Una cosa assordante.
Teatralmente è piuttosto uno spettacolo da ciechi. Perché altro non vede se non il proprio tema che primeggia su tutto, la costruzione dei personaggi (tagliati con l’accetta) e delle loro psicologie (duttili e raffinate come scatole di scarpe), la costruzione delle scene che sono dei rigidi blocchi di dialoghi che cadono l’uno dietro l’altro (quanto si chiacchiera fra sordi non è immaginabile). La vicenda stessa è un denso sciroppo di retorica sull’amore fra diversi e sulle inevitabili, difficili, anzi drammatiche, forse addirittura insormontabili difficoltà di comunicazione che questi eroi americani incarcerati nella lingua dei segni – e nel segno della lingua – ovviamente supereranno, con il coraggio del condannato Papillon in fuga dall’Isola del Diavolo in Guyana francese.
La storia è presto detta, così elementare che la si può copiare e incollare da Wikipedia: “New England. In un Istituto per sordi arriva un nuovo insegnante. È James Leeds, un giovane i cui metodi non piacciono molto sulle prime al direttore. Ma Leeds ha una facile presa sugli assistiti e i primi risultati riabilitativi si vedono presto. Nell’istituto c’è anche Sarah Norman, sorda praticamente dalla nascita che, accolta durante l’infanzia, è poi rimasta e si occupa delle pulizie. A differenza di molti dei sordi cresciuti nell’istituto, Sarah si rifiuta di parlare. Nonostante ciò è una donna intelligente e bella e Leeds se ne innamora”. Punto. Romeo e Giulietta nel mondo della logopedia.
L’operazione mediatica è perfettamente riuscita. Lo spettatore non viene catturato da un’estetica e una poetica della condizione umana che si sublima, da una metafora che accomuna destini e sentimenti e li rende uguali e distinti, ma da una pubblicità progresso lunga due tempi che sensibilizza alla disgrazia altrui con il tintinnio della moneta di una fratellanza di dubbio conio. Tanto poi gli spettatori andranno a casa a dormire e quando verranno svegliati in pieno sonno da una moto con la marmitta truccata, per una volta si sentiranno fortunati e ringrazieranno i costruttori di motocicli giapponesi.
Lo spettacolo è lento ma non è colpa del regista Marco Mattolini. Romeo deve dire le sue battute più tradurre per il pubblico quelle di Giulietta che si esprime solo con il linguaggio dei segni e questo complica alquanto le operazioni di scena. Tre interpreti sono non udenti, tre udenti, la regia si cura soprattutto di mettere ordine nelle comunicazioni fra i personaggi e fra scena e platea. Qui sta il difficile mentre per gli attori il lavoro è paradossalmente più semplice perché in simili condizioni non si bada più di tanto alle loro qualità interpretative. Tanto i difetti quanto gli eventuali pregi sono coperti da quella incessante sarabanda di mani che costituisce la lingua dei segni. Manca l’abitudine ad apprezzare la recitazione delle dita.
James Leeds è interpretato da Giorgio Lupano, Sarah Norman da Rita Mazza, in scena con Cristina Fondi, Francesco Magali, Gianluca Teneggi, Deborah Donadio. Lo spettacolo è applaudito e ottiene successo. E questo è un bene perché i buoni sentimenti hanno sempre un loro valore, anche quando sono facili.

Marcantonio Lucidi,
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