Al teatro Elettra di Roma “La signora di Rokujo”, adattamento teatrale di Massimiliano Milesi dal racconto di Setouchi Jakucho
Notizie dal Sol levante
Sono cose giapponesi e come tali vanno prese, con la dose di pazienza e di curiosità necessaria quando s’incontrano storie, caratteri e modelli narrativi di altre tradizioni culturali. Il rischio naturalmente è l’esotismo che sta al teatro come una geisha a passeggio di sabato per via del Corso. Il regista Massimiliano Milesi cerca di occidentalizzare il più possibile la sua messinscena del racconto di Setouchi Jakucho La signora di Rokujo, nella traduzione di Maria Teresa Orsi.
Setouchi Jakucho, nota anche con il nome di Setouchi Haroumi, è un’importante scrittrice onusta di premi letterari che nel 1973 decise di farsi monaca in un monastero di scuola buddhista Tendai. È nota per la sua traduzione in giapponese moderno del Genji monogatari, opera maggiore della letteratura nipponica, scritta nell’XI secolo e attribuita a Murasaki Shikibu, una dama di corte. Nel Genji Monogatari, anch’essa opera tradotta in italiano da Orsi col titolo La storia di Genji, si trova il personaggio della Signora di Rokujo. Ora, facendo astrazione dei labirinti giapponesi, la storia di questa signora in fondo è piuttosto semplice. Ella fu a suo tempo innamorata del bellissimo principe Genji, i due si amarono ma le cose si misero male e la signora divenne, fra l’altro suo malgrado, artefice di un maleficio ai danni della principessa Aoi, la quale era appunto una sposa del principe. Non è teatro, è un romanzo del quale a teatro si perdono le infinite preziose sfumature letterarie. Queste sono opere che vanno lette, possibilmente con calma, davanti a una buona tazza di tè, nelle domeniche invernali di pioggia, in una casa deserta e priva di televisore. Nel piccolo spazio scenico del teatro Elettra di Roma, Milesi mette due attori, Carla Aversa e Luca Avallone, a interpretare la Signora e il principe in una messinscena che pare piuttosto una lettura memorizzata e agita. Certe lentezze e ieraticità in effetti ci sono (niente a che vedere con il teatro Nō) ma fa un po’ lo stesso effetto che vedere il grande maestro di spada giapponese immobile nella sua concentrazione zen in una palestra di Trastevere circondato da allievi romani che tentano di imitarlo. Tokio a Trastevere.
I due interpreti lavorano sull’espressione di sentimenti che sono universali ma che hanno una coloritura diversa dalla nostra e quindi vorrebbero modi d’essere, di porsi, di rappresentare appartenenti a un’altra tradizione teatrale. È sempre il solito problema: una cultura è una complessità che si muove su un determinato sfondo storico, sociale e antropologico e se fin da piccoli si è abituati a sedere, mangiare, interagire con il prossimo all’occidentale, la mente, il sistema nervoso, anche la colonna vertebrale si formano in una maniera tale che poi sarà molto più difficile raggiungere dei buoni risultati nella pratica del budo, la via dell’arte marziale. Vale per il pubblico d’uno spettacolo che non è né occidentale né orientale, ma cerca un compromesso fra le lentezze maestose, austere, solenni, gravi e composte delle rappresentazioni giapponesi e la spiccia rozzezza di noi nati al di qua del Bosforo che pretendiamo azione, movimento, accadimenti.
Qui invece tutto è rievocazione di un passato remoto, raccontato da lontano, triste, solitario y final, come un vecchio giornale di anni prima lasciato sul sedile d’un taxi abbandonato dallo sfasciacarrozze. A trovarlo ci si metterebbe naturalmente sul sedile del conducente a leggere, aspettando verso il tramonto notizie dal Sol levante.