Carlo Vanoni al Brancaccino con il suo monologo “L’arte è una caramella”
Forse un po’ di luce si farà
Settantanove chili di caramelle ammucchiate in un angolo dell’Art institute of Chicago e firmate dall’artista cubano Félix González-Torres sono arte? Sono arte semplicemente perché quelle caramelle, che ogni visitatore può prendere e mangiare, rappresentano Ross Laycock, il compagno morto di Aids di González-Torres? Secondo Carlo Vanoni, in scena al Brancaccino di Roma con un suo monologo intitolato L’arte è una caramella, la risposta è sì. Per altri la risposta è no.
Incominciando con la Gioconda, passando per gli Impressionisti – Manet, Monet, Renoir, Cézanne – e i “Pompiers” – Cabanel, Gérôme, Bouguereau, tutti pressoché dimenticati – attraversando Picasso e Kandinskij, Vanoni s’inoltra sulla pericolosa strada di spiegare e di giustificare l’arte concettuale. Pericolosa perché si combatte da anni su questo tema una guerra delle estetiche e delle metodologie critiche non gratuita e che invece vale un sacco di soldi; non appannaggio di raffinati e disinteressati cultori, ma di mercanti, di banche, di fondi d’investimento, di critici troppo spesso avidi, di manovratori di giovani artisti che vanno a pescare nelle accademie di belle arti materiale umano da sfruttare e poi gettare via.
Vanoni però in questa sua teatralizzata lezione di storia dell’arte, di tutto ciò non si cura perché il suo intento non è di fare cronaca giornalistica su un mondo torbidissimo governato dal dio denaro, bensì di spiegare alcuni passaggi centrali dell’evoluzione dell’arte: come si è arrivati per esempio, e cosa significa, L’orinatoio di Marcel Duchamp, o che tipo di operazione ha fatto Andy Warhol con il volto di Marilyn Monroe e con i barattoli di minestre al pomodoro Campbell’s. Certamente il testo del monologo è una specie di bignami di storia dell’arte ma Vanoni offre dei momenti interessanti, come quando si mette a suonare la chitarra acustica per spiegare il grido di dolore che un’opera di Jackson Pollock contiene. E racconta in modo ameno alcuni paradossi: uno dei novanta barattoli da 30 grammi di Merda d’artista di Manzoni è stato battuto a un’asta nel 2007 al prezzo di 124 mila euro (il barattolo n° 18, il 57 fu venduto nel 2005 per 110 mila euro). Oggi l’oro vale poco più di 32 euro a grammo, per trenta grammi sono quindi necessari circa 960 euro. La merda vale più dell’oro? Sì, perché è d’artista. “Quando la merda avrà valore, i poveri nasceranno senza culo” era la scritta su un muro della facoltà di Lettere della Sapienza nel 1977.
La regia di Gian Marco Montesano procura che non ci siano tempi morti, che lo spettacolo non scada in lezioncina, che si mantenga sempre una certa atmosfera frizzantina. Vanoni il suo compito in scena lo svolge con astuzia, grazie anche alla sua lunga esperienza radiofonica di divulgatore d’arte (e aiutandosi con un microfono, strumento del suo mestiere). Ma è teatro il suo? Mettiamola così: Martin Creed vinse nel 2001 il Turner prize, il più importante riconoscimento britannico, con una stanza vuota in cui le luci si accendevano e si spegnevano ogni cinque secondi. Paolo Conte cantava in Un gelato al limon: “E ti offro l’intelligenza degli elettricisti / cosi almeno un po’ di luce avrà / la nostra stanza”. Se quella di Creed era un’opera d’arte, allora questo spettacolo è teatro. Però per fortuna qui sulla storia dell’arte un po’ di luce s’è fatta.