“Opinioni di un clown” di Heinrich Böll nell’adattamento e interpretazione di Stefano Skalkotos

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Il pagliaccio si è smarrito

I titoli in genere hanno un valore, significano qualcosa, danno delle indicazioni ed è bene non ignorarli. Opinioni di un clown di Heinrich Böll, romanzo (se così si può chiamare) del 1963 molto importante e discusso, non si intitola “Opinioni di Hans”, il nome del protagonista, e chiede quindi, nel caso lo si voglia trasporre sulla scena, che l’interprete conosca le tecniche della clownerie. E fin dai primi istanti della rappresentazione (al teatro della Visitazione di Roma) si vede che Stefano Skalkotos, anche autore dell’adattamento teatrale, buon attore peraltro, non ha la formazione adatta alla bisogna, ingegnandosi senz’arte nella classica gag della clownerie di togliersi e mettersi la giacca a rovescio. Si capisce subito quindi che si assisterà alla storia di Hans, un qualunque fallito bevitore di alcol lasciato dalla fidanzata cattolica, frustrato contestatore della Germania bigotta e falsa del miracolo economico e rabbioso concionatore contro la chiesa di Roma. Mentre quello che interessa è la storia del clown perché proprio in lui si celano la poesia, l’ironia, soprattutto l’innocenza di cui parla Böll. La verità è che se non si riesce a fare il clown, non è bene interpretare Opinioni di un clown. Perché il teatro è terribile e pretende che si dia concretezza a ciò che la letteratura può solo suggerire.
Allora è inevitabile che lo spettacolo perda la disperata dolcezza dell’originale, smarrisca il sarcasmo e l’ironia del clown, la sua peculiare forma artistica (quindi fattiva) di ribellione a quanto vede: una borghesia votata all’ipocrisia e alla violenza plutocratica; una società fino a pochi anni prima favorevole a Hitler e negli anni postbellici colpevole di un disegno di cancellazione della memoria e quindi della responsabilità poco meno criminale del nazismo. Il clown è figlio di una potente famiglia renana degli anni Cinquanta – Sessanta ed è pienamente consapevole dell’ambiente in cui è cresciuto e del passato che connota gli esponenti di quella cerchia. La sua visione del mondo procede da una morale integra, incorruttibile, ma non ideologica bensì fondata su un’interiorità poetica e su una purezza che rappresentano le caratteristiche centrali della sua arte. Il clown Hans nuota nelle paludi del falso (e dei pregiudizi cattolici) con l’affanno di chi è nato per le acque limpide, per i mari del bello e del bene. È la storia di un angelo nel fango, con le ali inzaccherate, comica e lancinante.
Le sue telefonate in cerca di informazioni sull’amata Maria e di soldi per sopravvivere mentre è costretto in casa a causa di un ginocchio danneggiato da una scivolata, sono grottesche grazie alla distanza che mostrano fra l’altezza del protagonista e la bassezza del mondo nel quale annaspa. Però a teatro per esprimere tutto ciò bisogna costruire il personaggio. Molte cose tragicamente comiche un clown avrebbe potuto fare sulla zoppìa, rendendola cifra del proprio stare al mondo; molti passaggi avrebbe saputo sfruttare con la feroce ironia che caratterizza gli esseri capaci di visione, di lucidità infantile, per esempio l’arrivo inaspettato del padre di Hans, uomo irrecuperabile a un’integrità morale e rigidamente, stoltamente opposto al figlio.
La regia di Roberto Negri non aiuta in nessun modo l’interprete. Priva di fantasia e di soluzioni sceniche, lascia Skalkotos ad arrangiarsi come può con qualche trucco d’attore in sostituzione dell’arte della clownerie. Peccato, una vera occasione perduta, anzi un’occasione da lasciar perdere.

Marcantonio Lucidi,
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