Al teatro Eliseo “Ivanov” di Cechov, regia di Filippo Dini
Ridere e morire in Russia
Cos’è l’eleganza? L’eleganza è l’accondiscendenza dell’irraggiungibilità. L’irraggiungibilità scende nella materia, vi accondiscende, ma in una forma al contempo distaccata e disinvolta (ogni materializzazione rappresenta una contraddizione). A un certo momento del secondo atto, in un salotto borghese un po’ pacchiano, tutti i personaggi cercano di essere eleganti. Ben presto però il tentativo si rompe in scoppi di euforia collettiva e di vitalità eccessiva. Filippo Dini ha messo in scena Ivanov, dramma giovanile di Anton Cechov, trattando i russi per ciò che sono, dei meridionali nordici. E tutto lo spettacolo, visto in scena all’Eliseo, è un divertimento raffinato di contrasti e controtempi, per il quale peraltro è necessaria una gran compagnia di attori che sanno come lavorare sul tempo senza rubarlo al collega. La colossale catastrofe di una società avviata alla sua sconfitta storica, che Cechov prevede con trent’anni di anticipo, nasce da un fatterello poco significativo, un debito di 9000 rubli che Ivanov ha contratto con Zinaida Savišna, la moglie avida e dominatrice di Pavel Lebedev. Lebedev è il contrario, un uomo generoso, perbene e di buoni principi che affoga nella vodka la sua inadeguatezza al mondo. Lo interpreta magnificamente Gianluca Gobbi che sul suo fisico corpulento, di solida apparenza, costruisce un personaggio smarrito, istintivo e incontrollato, che dichiara affannosamente la sua incapacità di capire cosa succede. Ivanov sta ancora peggio: è sposato con Anna Petrovna, ebrea convertita alla religione ortodossa, malata di tubercolosi e prossima a morire (alla fine del terz’atto), ma ha una storia con Saša, la figlia ventenne dei Lebedev, deliziosamente giovane e gioiosa, tenera e innamorata, ma capace di fortissima ira quando le cose non vanno per il verso giusto. Il ruolo è affidato a Valeria Angelozzi, appena diplomata alla Scuola del teatro Stabile di Genova e quasi stupefacente per quanto è già pronta per il mestiere: carica e scarica sulla scena il suo personaggio con un’energia temperata da una misura che sfiora l’astuzia.
Il dramma è tutto un “ma”. Il protagonista stesso è un carattere incentrato sulla congiunzione avversativa “ma”, poderoso strumento della comicità. Ivanov, il quale possiede un’azienda agricola, è preda di una malinconia e di un oblomovismo che gli impediscono ormai di gestire i propri affari ma è stato un uomo attivo, vitale; la giovane e ricca vedova Marta Egorovna Babakina intende sposare il conte Matvej Semenovič Sabel’skij, il vecchio zio materno di Ivanov, per avere il titolo nobiliare ma tutto sommato possiede un suo lato romantico. Michail Borkin, l’intrigante soprintendente della tenuta di Ivanov, è invece un carattere statico di materialista ma ha il suo opposto nel dottor L’vov, un onest’uomo dall’idealismo che confina con la stupidità.
Tutti i “ma” sono a posto, adesso è necessario in sede di regia farli cozzare fra di loro perché questo è il divertimento. Divertimento che naturalmente conduce a un finale tragico, da lasciare a bocca aperta per la sua sorprendente e improvvisa coerenza. L’importante è che gli attori recitino, come fanno, in modo che le battute non sembrino mai imparate ma scorrano fluide e naturali (naturali, non naturalistiche), secondo lo spontaneo sgorgare che deve caratterizzare la lingua semplice e quotidiana di Cechov, molto ben restituita dalla traduzione di Danilo Macrì.
Ora si tratta di dettagli, preziosi però, che la regia va a cercare anche nei bicchieri di vodka, in quell’entusiasmo alcolico russo, ardente e tristissimo, sempre sulla diagonale fra conversazioni stralunate, paradossi sarcastici, risate grosse, pernacchie, canti e saturnine dichiarazioni di mestizia, atrabiliari naufragi nei vuoti d’anima, sprofondamenti nelle gole della noia, questo mostro che in uno sbadiglio inghiotte il mondo. È naturalmente a Ivanov che si torna sempre, interpretato dallo stesso Dini con una strana grazia, in fondo la stessa dell’Oblomov di Gončarov, la grazia di chi sa d’essere il termine di una società, di un’epoca, e di avere un’ultima incombenza prima di scomparire per sempre, mostrare agli altri, con la semplice e tormentata manifestazione della propria natura, ciò che essi veramente sono. E costringere la platea a riderne.
In scena anche, tutti molto in parte, Sara Bertelà (Anna Petrovna), Nicola Pannelli (il conte), Orietta Notari (Zinaida Savišna), Ivan Zerbinati (il dottor L’vov), Ilaria Falini (la Babakina), Fulvio Pepe (Borkin). Al teatro Eliseo fino al 15 novembre.