“Rose is a rose is a rose is a rose” di Ivana Sajko con Sabrina Jorio
Lettera dalla terra slava
Sabrina Jorio è un’attrice o meglio, un’artista della scena bravissima e completa. Tecnica eccellente, ottimo controllo della voce e del corpo, addestrata anche al canto lirico, una formazione di clownerie che le consente effetti di gestualità e di ritmo sorprendenti. Tuttavia ciò che la rende un’artista e non semplicemente un’efficace macchina performativa, è la qualità indefinibile, non misurabile e non acquisibile, di trasmettere emozioni, si direbbe banalmente, e più precisamente di materializzare lo spirito dello spettacolo, di dargli una presenza densa. È sola in scena al teatro Lo Spazio di Roma con Rose is a rose is a rose is a rose, testo di Ivana Sajko, autrice croata per la prima volta rappresentata in Italia ma da poco nominata in Francia Cavaliere dell’Ordine delle Arti e della Letteratura. Il titolo dello spettacolo riprende un verso del poema di Gertrude Stein Sacred Emily ed è una dichiarazione estetica sul rapporto fra il significante (la parola in sé) e il significato (l’oggetto). Ma il significante è fisso, il significato mobile, così una rosa è una rosa ma diventa, per esempio, anche l’archetipo della poesia romantica. O il messaggio di un profumo in mezzo alla catastrofe. Il testo racconta della traversata di una città in guerra. Un ragazzo e una ragazza si incontrano in discoteca e decidono di andare a casa di lui. Ma devono passare per tutte le guerre del mondo, i Balcani, il G8 di Genova, le devastazioni dell’anarcoliberismo, gli autobus in fiamme, le cariche della polizia, le bombe, i morti, i feriti. Si può amare in queste condizioni amare? Amare è amare è amaro.
Naturalmente, essendo l’autrice croata, il pensiero va alla guerra fratricida fra gli slavi del sud, ma il racconto dello spettacolo non è incentrato su quel determinato fatto storico, per quanto grave possa essere stato. È il risultato di una sensibilità alla condizione umana che quella guerra ha certamente acuito. Non si sta dunque nella retorica della slavità come tragedia e mania di suicidarsi, ma in un discorso che riguarda il conflitto fra le pulsioni bestiali dell’uomo e le sue aspirazioni più elevate. Quindi la confusione è grande sotto questo cielo e tale dev’essere nello specchio del teatro, il quale riflette un’ulteriore lotta, fra il caos del mondo e l’ordine necessario della messinscena. Senza un’attrice di questo calibro, che riorganizza interpretativamente lo spettacolo, difficile sarebbe stato il compito della regia di Tommaso Tuzzoli. Sottrarre nelle cose d’arte è tutto, in questo caso è il modo per far risaltare nel vuoto il pieno essenziale d’una scena quasi spoglia interamente abitata da Sabrina Jorio.
“Facevano l’amore come se si stessero picchiando”, è l’incipit del testo. Allora l’amore si può fare a qualsiasi costo, in qualsiasi condizione ma non può stare fuori della realtà. L’amore è dove si è, quando si è, qui e ora malgrado tutto. È un proclama di vita che si oppone alle dichiarazioni di morte di tutti coloro che non vogliono lasciare vivere in pace il prossimo. L’attraversamento del fuoco non possiede forza di redenzione, la guerra non è un’igiene del mondo ma in questa favola che è la vita, raccontata da un idiota, piena di rumore e furore, che non significa nulla, una donna e un uomo hanno sempre, almeno per un istante, il privilegio di essere liberi. E dentro un istante vi è l’eterno. A questo non c’è spiegazione. “Una rosa è senza perché. Fiorisce perché fiorisce” (Angelus Silesius).
Al teatro Lo Spazio di Roma fino al 25 ottobre.