Fus, la macelleria dei tagli
Un’equazione per azzerare il teatro
Come farà il mondo del teatro a resistere di fronte alla macelleria che si annuncia con i tagli ai finanziamenti ministeriali e con la selezione della commissione prosa del Mibact di chi deve vivere e chi morire? In due modi, spiegano gestori di teatri e direttori di compagnie: o accettando la sentenza di morte o difendendosi con alcuni vecchi trucchi non propriamente regolari.
Dopo la selezione dei Teatri Nazionali, dei Tric (Teatri di rilevante interesse culturale) e dei centri di produzione, per i quali le cifre dei contributi assegnati sono uscite, fra qualche giorno sarà la volta delle imprese di produzione, ossia le compagnie che non hanno una sala teatrale. La commissione prosa dovrebbe riunirsi il 10 luglio per decidere. Dovrebbe, perché la riunione è già stata rimandata varie volte. Nel frattempo il 2015, anno al quale si riferiscono i contributi ancora da decidere, è già passato per metà, ma a piazza Santa Croce in Gerusalemme, sede della Direzione generale dello spettacolo del ministero dei Beni culturali, non hanno neanche concluso la selezione delle imprese che secondo loro possiedono i requisiti per avere i soldi. Questa è un’antica storia italiana di malgoverno: i contributi arrivano sempre con un anno e più di ritardo ai teatri e alle compagnie, i quali devono anticipare di tasca propria: insomma vai avanti tu che mi vien da ridere. Comunque, una volta che la commissione prosa si sarà data una mossa, si potrà incominciare a fare i raffronti fra soggetti finanziati nel 2014 e quelli finanziati nel 2015, e soprattutto fra entità dei denari ministeriali. Allora la dimensione della macelleria sarà definitivamente misurabile. Il rischio, anzi la quasi certezza, è che una parte dell’attività teatrale finisca nel sommerso, con un aumento delle irregolarità contabili e una moltiplicazione di fondi neri. Non è una novità, però il fenomeno tenderà ad ampliarsi perché, sostengono molti produttori di teatro, con il decreto del luglio 2014 che ha riformato il Fus (Fondo unico per lo spettacolo), il ministero calcola i contributi con delle metodologie che li obbligheranno “a dire le bugie”.
Il sistema per sopravvivere è semplice, rodato e si basa su tre cardini: le false fatturazioni, i borderò falsi, le retribuzioni di attori e tecnici dichiarate ma non pagate. In sintesi, funziona così: Alla compagnia TVS, Teatro Voglio Sopravvivere, ogni recita costa 2000 euro. Per accedere al finanziamento ministeriale deve fare 110 giornate recitative. (oltre a 1300 giornate lavorative: significa che la compagnia deve pagare più di dieci lavoratori, una follia in questi tempi di crisi economica). Il costo complessivo delle 110 recite è quindi di 220mila euro, senza contare i costi di allestimento e prove. La TVS si vede riconoscere dal Mibact 100mila euro di contributo e in più dispone di 100mila euro da incassi e “piazze pagate”, che fanno 200mila. Quindi sui 220mila di costi, la perdita ammonta a 20mila euro. Allora la compagnia decide di fare 100 recite vere, per un costo di 200mila euro in modo da pareggiare i conti, e dichiara 10 recite mai effettuate. Sono fasulle. La compagnia farà dei borderò falsi, dichiarando giornate recitative di rappresentazione mai avvenute; pagherà la Siae (se ci sono diritti d’autore da onorare) e i contributi previdenziali agli attori ma non la paga. Otterrà questi soldi (Siae e contributi) chiedendo alle scenotecniche, ai trasportatori, ai service fonica e luci (che avrebbero dovuto lavorare alle 10 repliche), delle fatture false.
In questo modo, la compagnia è a posto con i pagamenti della Siae, dell’Iva e dell’ex Enpals (oggi nell’Inps) e avrà dichiarato le 110 agognate repliche necessarie ad ottenere il contributo ministeriale. Anche sulla Siae si possono fare dei giochini come per esempio dichiarare che si va in scena con l’Amleto che è fuori diritti e invece rappresentare “Tre galline sulla credenza”, di autore contemporaneo. Oppure il contrario, pagare dei diritti per un testo di autore italiano mai andato in scena in modo da rispettare il decreto che prevede dei minimi di giornate recitative dedicate alla produzione drammaturgica nazionale.
Un altro metodo praticato è il seguente: una produzione fa un contratto a un artista di teatro come organizzatore di produzione per uno spettacolo di autore contemporaneo. Lo spettacolo necessita di quattro attori e di un regista. L’artista in questione si mette d’accordo con i suoi colleghi per andare a incasso. E trova in una città diversa da quella del gruppo un piccolo teatro da 99 posti disposto ad ospitare lo spettacolo per una recita secondo la formula dell’affittacamere. L’allestimento deve costare il meno possibile: non ha scenografie, si avvale del tecnico che trova nel teatro in cui andrà, fa le prove a bassissimo costo in un locale rimediato magari in un centro sociale, non chiama né un ufficio stampa né un fotografo per le foto di scena, fa le locandine alla buona sul computer e le fa stampare alla copisteria sotto casa. L’attore divenuto anche organizzatore di produzione cede alla produzione i borderò, ricevendone in cambio l’agibilità, ossia il certificato rilasciato dall’ex Enpals previo accertamento della regolarità degli adempimenti contributivi. Il produttore paga solo i contributi agli attori dichiarando che li retribuisce al minimo sindacale, 67 euro al giorno. L’organizzatore di produzione ha a suo carico tutti gli oneri dello spettacolo e si tiene gli incassi. La produzione ottiene i borderò, aumentando le giornate recitative e lavorative da presentare al Ministero per accedere al finanziamento. Con questo sistema, le paghe degli attori, al netto dei contributi, sono ricavate semplicemente dalla spartizione dell’incasso. Rapido calcolo: quattro attori e un regista per uno spettacolo in scena in un teatro da 99 posti. Vengono venduti 90 biglietti a 10 euro l’uno (quindi è un bel successo, sala quasi piena) pari a un incasso di 900 euro. L’imponibile Iva è di 818,10 euro, quindi l’iva da pagare ammonta a 81,9 euro. Il teatro costa 100 euro al giorno più Iva al 22 per cento che fa 122 euro. Il tecnico prende 80 euro per il montaggio luci più 30 per la serata (un prezzo di favore ma al nero). Per andare in scena in un teatro di 99 posti, bisogna lasciare alla Siae un deposito cauzionale di 96,78 euro che verrà restituito dopo lo spettacolo. Però fatti i conteggi e detratta l’Iva, la Siae consegna 70 centesimi. Dopo tutto ciò, alla compagnia restano dell’incasso 490.02 euro. Ma bisogna ancora mettere in conto i trasporti, gli alloggi e i pasti degli artisti, visto che la recita avviene in un teatro di un’altra città. Siccome gli attori sono duttili e si adattano da vari millenni, un bed and breakfast da quattro soldi costa 30 euro a persona, pari a 150 euro, più 30 di cena dopo lo spettacolo (altri 150) e fanno 300 euro. Ne restano 190 ai quali bisogna togliere la benzina e i pedaggi autostradali, circa altri 60 euro per una distanza di 300 chilometri. Risultato: avendo riempito il teatro, ai quattro attori più il regista vanno per quella rappresentazione 38 euro ciascuno. Si tratta di amore per il teatro, praticamente di volontariato.
Non è che al ministero e alla Direzione generale tutte queste cose non le sappiano ma l’impressione è che abbiano deciso di ammazzare il paziente invece di curare la malattia. L’impegno che il Mibact chiede a tutti i soggetti sul mercato (Teatri Nazionali, Tric, centri di produzione, imprese di produzione eccetera) è triennale, ma l’impegno del ministero stesso è annuale. Se qualcuno a Santa Croce in Gerusalemme decide che tale compagnia va fatta fuori, niente di più semplice. Lo era prima, lo è ancor di più oggi ma con la grande differenza che stavolta il rischio per l’impresario teatrale è altissimo. Per esempio, nelle disposizioni generali e comuni, all’articolo 8 intitolato “Decadenza, revoca e rinuncia”, il ministero si riserva la facoltà di recuperare le somme già erogate nel caso in cui, per esempio, il soggetto non sia riuscito a consuntivo a raggiungere i requisiti minimi di attività. Quindi se un’impresa di produzione non ce l’ha fatta a vendere i suoi spettacoli (evento normalissimo in questi tempi di crisi), non solo decade dai contributi per gli anni successivi, ma deve restituire i soldi già presi anche se sono stati spesi per l’attività. Un ingenuo potrebbe pensare che la punizione avverrebbe nel semplice caso in cui non avesse rispettato il numero di giornate lavorative, registrandone 100 invece delle 110 previste per le imprese di produzione. Invece non è così. Il comma 6 dell’articolo 6 recita (vale la pena di citare tutto il passaggio): “Per riduzione della dimensione quantitativa si intende la diminuzione dei valori dei relativi indicatori, calcolando la media aritmetica delle variazioni percentuali registrate per ogni indicatore, ponderato per la sua importanza, nel confronto tra quanto dichiarato nel programma annuale presentato a preventivo e quanto rendicontato nella documentazione di cui al precedente comma 3, sulla base di un’apposita formula matematica contenuta nell’Allegato D del presente decreto”. Ecco la formula: PTDQSt = [(V1 t x PDQ1MAX)/ V1 MAX] + [(V2t x PDQ2MAX)/ V2 MAX] +…+ [(Vnt x PDQnMAX)/ Vn MAX]. Questa invece è l’equazione di campo di Einstein: Rµν – ½ gµνR = k Tµν.
Così i produttori stanno mandando avanti solo gli spettacoli che una volta si chiamavano “di cassetta”, la cassetta dei soldi, quelli che sicuramente staccano un po’ di biglietti, alla faccia della qualità tanto sbandierata dal ministero. Fine dell’offerta teatrale nelle zone svantaggiate, in particolare i paesi e paesini del sud, troppo rischiosi economicamente; fine delle proposte di autori nuovi, che non fanno incassi se non sono noti; fine delle compagnie under 35 che per il 2015 usufruiscono di requisiti minimi inferiori per il contributo ministeriale ma dal 2016 saranno uniformate alle altre e molto difficilmente potranno rispettare quei requisiti. Se decadranno dal contributo, i gruppi teatrali giovani rischieranno anche di vedersi chiedere la restituzione dei fondi pubblici già presi.
Viste le esclusioni decise dalla commissione prosa del ministero riguardi i Teatri nazionali, i Tric e i centri di produzione, si deve ragionevolmente pensare che i finanziamenti alle imprese di produzione saranno distribuiti a pochi soggetti. Ma non è detto, come si è visto, che nessuno di loro farà borderò falsi. Intanto però il ministero avrà definitivamente tolto l’ossigeno a una gran quantità di piccole compagnie. Rimarranno poche imprese teatrali pubbliche e private che monopolizzeranno il mercato e avranno un potere enorme. Il sistema teatrale è già stato ridotto al lumicino: sette Teatri nazionali, 17 Tric più 3 delle minoranze linguistiche, 19 centri di produzione, ossia soggetti che gestiscono una sala e fanno produzione. Adesso si vedrà quante imprese di produzione verranno falciate.
In questo modo il mercato è stato reso dal ministero ancor più chiuso di prima. I soldi pubblici vanno prevalentemente ai Teatri nazionali e ai Tric che devono rispettare determinati parametri sul loro territorio (per i Teatri Nazionali non più del 20% delle giornate recitative può essere rappresentato fuori dalla regione di appartenenza, percentuale che sale al 40 per i Tric). Il risultato sarà una diminuzione drastica dell’eterogeneità dell’offerta, un annullamento della concorrenza tra teatri stabilizzati e medio-piccole sale, la fine del mercato teatrale. Perché in questa situazione diventa impossibile per una compagnia privata avere le “piazze”. E se nessuno le compra lo spettacolo, quella compagnia come fa a fare 110 piazze?
Ciò che preoccupa ulteriormente il mondo del teatro è l’atteggiamento degli enti locali che tendono a convergere sulla politica del governo per fare sparire le compagnie. D’altronde se, per fare un esempio, gli indebitatissimi Comune di Roma e Regione Lazio sono chiamati dal decreto ministeriale ad assicurare al Teatro di Roma diventato Teatro nazionale il 100 per cento del finanziamento ministeriale (pari a 1.881.417 euro) e il 40 per cento al nuovo Tric romano, il teatro Eliseo (pari a 192.460). Come possono questi enti locali finanziare anche le piccole e medie compagnie? La Regione Lazio, per esempio, finanzia con 980mila euro l’Atcl (Associazione Teatrale fra i Comuni del Lazio), il circuito regionale di promozione, distribuzione e formazione del pubblico che riunisce 17 teatri di sedici comuni. Ha stanziato circa 1 milione 190mila euro per il Teatro di Roma, 1 milione 785mila euro per il Teatro dell’Opera, 1 milione190mila euro per Musica per Roma, e 595mila euro per Santa Cecilia. Per il sostegno alla produzione teatrale privata prevede di impegnare da 200mila a 420 mila euro.
La politica ha il diritto e soprattutto il dovere di fare delle scelte. Però le deve motivare. Può decidere di non finanziare il teatro, in particolare quello privato (dopotutto, perché dovrebbe?) ma deve spiegare perché lo Stato finanzia, tanto per fare un esempio, l’autotrasporto merci, anch’esso privato. Forse si tratta di una questione elettorale? Forse perché i padroncini, corporazione coesa, bloccano le autostrade, mentre la gente di teatro ha dimostrato di non essere capace di invadere neanche un camerino? Dal 2008 al 2010 il contributo al teatro di prosa crolla da 84 a 60 milioni di euro. Nel 2011 e 2012 risale a circa 66 milioni, e nel 2013 cala di nuovo a 62,4 milioni (meno 5,44 per cento rispetto al 2012, meno 17,01 per cento rispetto al 2006. Per il 2015 sono previsti più soldi, 67 milioni. I contributi all’autotrasporto merci ammontano quest’anno a 250 milioni.