“Sudori freddi” di Giancarlo Sepe a Castel Sant’Elmo per il Napoli Teatro Festival.

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Ombre di amore e morte

Giancarlo Sepe ama molto il Novecento francese probabilmente perché quella tradizione culturale e teatrale ha la straordinaria capacità di classicizzare l’avanguardia, di farla naturalmente propria, di renderla inscindibile dalla sua colossale tradizione. In Francia tutto sommato l’avanguardia non è mai esistita, neanche Dada, tutto è parte dell’enorme flusso d’arte e letteratura che da secoli il paese offre all’umanità. Questa è la forza della nazione, la voce che fino ad oggi le ha permesso di restare una potenza mondiale, anche dopo la perdita delle colonie, malgrado l’egemonia americana, a dispetto dell’anglofonia mondiale, contro il declino europeo.
La classicità dell’avanguardia, oltre a permettere una meravigliosa libertà artistica, rappresenta per Sepe, che è un esteta, la sua soluzione al problema del rapporto fra il bello e il nuovo. Il regista può avanzare sulle strade della sua ricerca teatrale senza mai inciampare nella malagrazia e nello squallore che in Italia spesso connotano gli spettacoli di “innovazione”, parola per gli ingenui. Sepe fa un teatro classico contemporaneo e per spingersi fino all’orizzonte della sua arte usa ogni strumento, stavolta Boileau e Narcejac, due bravissimi scrittori francesi di romanzi polizieschi che scrivevano a quattro mani dei “polar”, come li chiamano oltralpe, di grande successo oltre a vari titoli del famoso ladro gentiluomo Arsène Lupin. Dei due autori, Sepe ha messo in scena per il Napoli Teatro Festival nella sala dei cannoni di Castel Sant’Elmo Sudori freddi (Sueurs froides) secondo un suo tipico gioco di citazioni: Sueurs froides non è il titolo originale del romanzo – s’intitolava D’entre les morts quando apparve la prima volta nel 1954 – ma quello dell’edizione francese del film Vertigo che Hitchcock trasse appunto dal racconto di Boileau-Narcejac e che in Italia è La donna che visse due volte con Kim Novak e James Stewart. Tutto lo spettacolo è un sistema di citazioni, certi dettagli di impronta pirandelliana, la Francia di fine anni Trenta, gli anni Cinquanta di Jacques Brel che canta Ne me quitte pas. Superba la coreografia di corpi slogati dalla sofferenza amorosa, fiamme dell’anima in contorsione, mentre si sente la voce di Brel: “Laisse-moi devenir / L’ombre de ton ombre / L’ombre de ta main / L’ombre de ton chien”. (Fammi diventare / L’ombra della tua ombra / L’ombra della tua mano / L’ombra del tuo cane).
È uno spettacolo sull’ombra dell’uomo, così sostanziale però, così intensa e amorosa che non deve essere rivelata perché la sua verità è arcana, sospesa nella suspense di una Marsiglia equivoca, assassina, ventriloquia. E perché la messinscena è un po’ diversa dal romanzo e dal film. Chi è morta? Madeleine o Renée in Sepe, Madeleine o Pauline in Boileau e Narcejac, Madeleine o Carlotta in Hitchcock? Chi è l’ombra di chi?
Soprattutto: cos’è la vertigine? La vertigine d’amore, l’inseguimento della donna amata fino alle terre della follia, l’impossibilità della fusione decretata dalla morte che si diverte a uccidere e poi a resuscitare, per ampliare il dolore fino all’insostenibilità, per impedire finanche la tremenda quiete generata dall’irreparabilità delle cose. Un noir sentimentale sull’amour fou si trasforma in una discesa nell’amore necromantico perché è nella prefigurazione della morte che la passione raggiunge l’insopportabile intensità agognata da chi ama. Sepe trasferisce la storia dalla Parigi di Boileau-Narcejac a Marsiglia. Marsiglia è alla Francia ciò che Napoli è all’Italia, città nelle quali l’essenza degli uomini sta nel centro delle emozioni. Allora il regista si pone in uno stato di contemplazione: la scena è ciò che lui vede nella sua mente, una camera oscura attraversata da luci che rappresenta gli esseri umani, queste ombre rischiarate.
Tutto ciò non sarebbe stato possibile senza un collettivo di attori più che eccellente, in primis Pino Tufillaro, e senza il coraggio della produttrice Marioletta Bideri.

Marcantonio Lucidi,
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