Uno studio di Daniele Scattina su “Amleto” al Teatroinscatola di Roma
Amleto, un ponte non una méta
Non è l’Amleto di Shakespeare ma è l’Amleto di Daniele Scattina che sta solo in scena e fa un teatro che si potrebbe definire assoluto, o meglio assolutamente poetico, secondo l’insegnamento di Perla Peragallo e Leo De Berardinis. Scattina si diplomò nel ‘94 al Mulino di Flora, la scuola romana di Perla dove Leo insegnava. Proviene quindi da una delle più importanti avventure teatrali del secondo Novecento italiano e ne è forse uno dei migliori eredi. Erede, non epigono. Per questo Amleto in forma di studio al Teatroinscatola di Roma, ha usato a suo modo uno schema tipico di De Berardinis: prendere un classico e attualizzarlo. Non significa mettere un paio di jeans o uno smoking al principe di Danimarca per poi saccheggiarlo ma trasformarlo in un ponte – “l’uomo è un ponte e non una mèta” scriveva Nietzsche in Così parlò Zarathustra – fra l’osservazione critica della realtà e la manifestazione scenica poetica di questa realtà.
Allora, sotto Amleto, che è fra le altre cose una potente riflessione di Shakespeare sull’arte del teatro, quindi sulle relazioni fra esseri umani, Scattina traccia un discorso sull’artista e il suo spazio nella società, sul ruolo dell’attore, sulla sua responsabilità così faticosa per gli ignari da individuare, serrato com’è l’uomo di palcoscenico fra il sospetto e la colpa, il sospetto di inutilità e la colpa di eversione. Amleto solo in scena parla a suo padre, a sua madre, a Polonio. A Ofelia dice una verità drammaturgica: “Non piangere, dopotutto il nostro amore è durato poche battute”. Ma lo dice col tono di chi sa che un amore di poche battute, un amore d’un giorno, nella sua brevità può generare l’infinito dentro la coscienza di un essere umano. L’attore alterna i passaggi al microfono ai momenti con la voce naturale, ma non c’è nulla di Carmelo Bene, non c’è una ricerca sugli effetti vocali e sulle potenzialità espressive del mezzo tecnologico. Scattina lo fa per definire le onde del movimento interiore di Amleto e anche perché, da attore e regista qual è, sente la necessità di variare i tempi e la densità del monologo. È un atto di umiltà, una scelta di tecnica recitativa nel rispetto dello spettatore e dei suoi ritmi. Anche per questo motivo l’interprete circonda il personaggio delle musiche dal vivo di Ivan Ray Pisano alla chitarra elettrica, Lorenzo Menicheschi al basso e Gianfranco Vozza alle percussioni. Scelta felice perché i tre sono musicisti di prim’ordine, gente capace di improvvisare senza mai soverchiare la voce dell’attore solista e anzi accompagnandolo in fondo alla spaventosa solitudine che accomuna interprete e personaggio. Più che solitudine è solitarietà, se così l’italiano potesse dire, ossia l’uomo che pensa in mezzo alla folla.
Questo spettacolo è uno studio. Il sistema produttivo attuale lascia completamente soli gli artisti quando vogliono lavorare in progressione su una loro idea (e ormai li lascia sempre più soli anche quando il progetto di messa in scena è definito). Si tratta di un impoverimento grave perché lo studio permette al contempo la riflessione e l’esperimento, la teoria e la pratica, l’idea che si incarna per mostrare le sue fattezze. Impedire alla gente di teatro di mettere in scena degli studi equivale a rubare i fogli da disegno ai pittori. Allora siccome l’artista è irrefrenabile, si metterà disegnare sulle tovagliette del bar, sugli scontrini del supermercato, sulle foglie morte. Scattina disegna il suo Amleto in un teatro in scatola, come si chiama lo spazio romano, un posto per esistenzialisti del dopoguerra. Sempre che la guerra sia finita, forse si potrebbe ricominciare da qui.