“Scacco pazzo” di Vittorio Franceschi alla Sala Umberto

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Pazzo d’amore e soldatini

Una sera di quasi venticinque anni fa, all’ultima replica di Scacco pazzo, la fortunatissima commedia di Vittorio Franceschi, Monica Scattini, entrò in scena accompagnata dal suo cane. Era una commedia da pazzi, quindi la Scattini, purtroppo scomparsa nel febbraio scorso, ebbe questa trovata folle. D’altronde il testo era stato messo in scena da un signore che di scherzi se ne intendeva, Nanni Loy, al suo debutto come regista teatrale. Ma Franceschi, che all’epoca era anche interprete della sua commedia assieme ad Alessandro Haber e alla Scattini (stavolta è solo metteur en scène), non la prese bene e si lamentò con l’attrice. L’aneddoto è uno dei tanti che si pescano nel mondo del teatro ma dice due cose: la prima è che avere dei cani in camerino è una tentazione fortissima (anche i quattrozampe di Franca Valeri hanno avuto l’onore della ribalta e non erano i peggiori che si siano visti). La seconda riguarda il rapporto fra drammaturghi e attori che è uno scontro fra due diritti opposti perché i primi vogliono che il loro testo, frutto di fatiche immani, di lavorazioni chirurgiche delle parole, sia restituito in scena con la pignoleria di una maestra di matematica. I secondi s’appellano alla libertà, all’inventiva, al qui e ora della scena, e se dico “essere o non essere questo è il problema, questo è il dilemma, la complicazione, la seccatura, il grattacapo, la grana, la rogna”, non ha importanza, conta l’effetto. Allora ci si chiede – siccome si capisce che in questa nuova edizione di Scacco pazzo Nicola Pistoia non è sempre perfettamente aderente al testo come una porta alla sua cornice – quali siano le sofferenze di un autore-regista all’idea delle trovate che un suo attore potrebbe combinargli lì per lì. Ma Pistoia è un gatto chiuso nel sacco perché il ruolo del pazzo Antonio non è toccato a lui, come la natura di questo artista permetteva di prevedere, ma a Paolo Triestino, di indole più composta, mentre Elisabetta De Vito mai si sognerebbe di portarsi il cane in scena, forse neppure le proprie orecchie se non sono previste. Evidentemente il regista ha preferito non indurre in tentazione, altrimenti dal camerino magari arrivava un cavallo visto che Antonio ha subito una regressione infantile e ora vive fra pupazzi e soldatini e si diverte a saltare e correre per casa giocando alla guerra. Il pazzo va avanti così da anni, da quando la sua promessa sposa morì in un incidente stradale mentre si stava recando alla cerimonia in chiesa. A guidare era il fratello di Antonio, Valerio, che adesso ha dei sensi di colpa così forti, pur ritenendosi incolpevole, che accetta di travestirsi da padre, da madre e da sposa per compiacere il poveretto. A un certo momento Valerio si innamora, porta una ragazza in casa, ma siccome il mondo folle, infantile, fantastico di Antonio è più affascinante di quello del fratello, di mestiere proprietario di una vecchia cartoleria, le cose non andranno in maniera normale.
Il gioco della commedia sta nelle possibilità offerte dal testo, che può essere trattato come un Kammerspiel (letteralmente “recitazione da camera”) e privilegiare l’analisi intimistica e psicologica, oppure volto in commedia brillante, a tratti persino farsesca. Queste sono scelte della regia, e qui Franceschi ha preferito la prima opzione, rinunciando a un po’ di risate in favore di una maggiore raffinatezza poetica che è la sua cifra stilistica. Ha chiesto quindi allo scenografo Matteo Soltanto un ambiente un po’ cupo e desolato, un interno esistenziale di vite maschili esauste, e anche un interno mentale in cui la luce scarseggia, e quella che c’è stamattina potrebbe mancare del tutto. La bravura dei due attori, Pistoia e Triestino, è evidente, hanno sempre coscienza del significato e delle potenzialità delle battute che dicono, mentre è meno abile Elisabetta De Vito perché il personaggio è più forte di lei, meglio costruito di come l’attrice lo restituisce.
Alla Sala Umberto di Roma fino al 31 maggio.

Marcantonio Lucidi,
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