L’Edipo re di Marcido Marcidorjs al teatro Vascello
La tecnica della cecità
L’uomo che uccise suo padre e giacque con sua madre, Edipo, è una storia contemporanea. Perché nel nostro tempo degli uteri in affitto, della fecondazione eterologa e dei genitori biologici senza nome, ciò che ai tempi di Sofocle era possibile nel mito ora è reso probabile dalla tecnica. Con la differenza che il mito possiede un contenuto etico e morale, una funzione ammonitrice, che la tecnica non ha. L’ignoranza della propria origine, del proprio passato, è portatrice di tragedie, collettive e individuali. È stupefacente che molti di coloro che giustamente reputano la Storia magistra vitae e ne ritengono necessaria la conoscenza per evitare i drammi del passato, non applichino lo stesso ragionamento agli individui e alle loro storie personali. Tiresia è l’indovino cieco, non ha bisogno di vedere perché sa. La sua è una cecità veggente. Edipo vede ma non sa, non guarda, la sua è una vista cieca. Edipo re è una tragedia della visione e dello sguardo, quindi contemporanea.
Il testo di Sofocle è stato messo in scena dalla compagnia torinese Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa in una traduzione e adattamento drammaturgico di Marco Isidori, anche regista e interprete nel ruolo del titolo. Lo spettacolo, arrivato al Vascello di Roma, si apre su una magnifica scenografia di Daniela Dal Cin: il palazzo del re è una specie di piramide a tre gradoni di colore giallo lucente con botole, feritoie, passaggi segreti. Dalla struttura si dipartono dei pali in metallo che sostengono delle grandi sagome in bianco e nero di uomini e bestie morti, che ricordano vagamente Guernica di Picasso. Questa è la peste che flagella Tebe, perché, così afferma l’oracolo di Delfi, la città è contaminata dall’uccisione di Laio, il precedente re, rimasta impunita. La peste è di chi non sa. In un’alcova a cinque metri di altezza, Giocasta è imprigionata in un costume di rame lucido, e pare una crisalide. È la condizione di chi non vuol sapere: “Ascoltami, piuttosto: nessun uomo è veramente un Mago, convincitene!” dice Giocasta a Edipo. Tiresia possiede delle mani gigantesche che perlustrano il vuoto: nel buio infinito della cecità, il veggente tocca la verità. Il coro, che qui non è propriamente sofocleo, è una tribù di cinque attori che si muove dentro e fuori del Palazzo e scandisce i ritmi e i toni della rappresentazione. E qui nasce il sostanziale fallimento dello spettacolo. Perché la recitazione è tutta eccessiva, sopra le righe, appesantita da un incessante birignao. Il coro, sempre presente e insistente, la esaspera addirittura e gli altri attori, Loretta Dal Cin (Giocasta), Maria Luisa Abate (Tiresia), Paolo Oricco (Creonte) se anche volessero per un istante mitigare una simile enfasi, si ritroverebbero fuori della regia. È chiaramente una scelta recitativa voluta da Isidori, il quale la incoraggia dalla sua posizione di protagonista con accenti addirittura alla Carmelo Bene. Ma non ottiene ciò che presumibilmente vuole, ossia una risonanza straordinaria della parola, piuttosto quel terribile suono ridondante, retorico, pomposo che sovente caratterizza la messa in scena dei classici e li rende malati di quella peste teatrale che è il falso classico.
È una specie di paradosso, quindi: una delle più importanti formazioni di ricerca italiane degli ultimi trent’anni, che ha inventato spettacoli memorabili, che è necessario vedere ogni volta che mette in scena qualcosa, si lascia sorprendere e fuorviare dal formalismo fino ad arrivare quasi alla parodia del formalismo. Eppure il testo rielaborato da Isidori è bellissimo, trasparente, e non ha nessun bisogno di questi artifici della recitazione che sono dinosauri catapultati in una vetreria. Però Isidori, proprio mentre si occupa del mito, si lascia ipnotizzare dal maleficio della tecnica che da sola non contiene nulla, né morale né etica, tantomeno arte che qui è la cosa importante, e conduce alla cecità.
Peccato. Veramente peccato.