Saggio degli allievi dell’Accademia “Silvio D’Amico”
Pasolini non s’è visto, forse non c’era
Alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo ne vanno aggiunti due, sosteneva Charles Baudelaire: il diritto di contraddirsi e quello di andarsene. In linea di massima a teatro il primo è degli artisti ma il secondo degli spettatori.
L’Accademia nazionale d’arte drammatica “Silvio D’Amico” ha proposto negli spazi della Pelanda, a Roma, una serie di esercitazioni intitolate Pier Paolo Pasolini poeta delle ceneri, progetto diretto da Giorgio Barberio Corsetti, docente di regia. Coinvolti gli allievi del II e III anno di regia che hanno messo in scena spettacolo, la classe di recitazione del II anno, dieci giovani attori professionisti e, qui sta una delle due disgrazie, cinque allievi del master di drammaturgia che hanno fatto i dramaturg. Hanno messo le mani nei testi di Pasolini scelti per l’occasione: Bestia da stile, Porcile, Orgia, Manifesto per un nuovo teatro, Carne e cielo. Un po’ come chiedere a Federico Moccia di risistemare Cime tempestose. Un dramaturg, figura diffusa nel teatro tedesco, è un intellettuale assunto come estensore dei programmi, traduttore, riduttore, poeta di compagnia, insomma un uomo di cultura che affianca il grande regista e legge per lui centinaia di copioni, effettua ricerche sulle opere e adatta questo o quel classico per una messinscena. Vero che questi “dramaturg” della “Silvo D’Amico” sono giovani e inesperti ma come diceva Totò ogni limite ha la sua pazienza e a volte è bene che il lallare dei bambini resti confinato alla soddisfazione della ristretta cerchia familiare, ad uso interno, e non esposto al meravigliato applauso della cittadinanza. Chi non avesse conoscenza dei testi di Pasolini, non capirebbe nulla di quanto avviene in scena, tanto è pasticciata, mal cotta, tagliata peggio e servita senza genio la cucina di questa rosticceria drammaturgica. Se l’Accademia ritiene che questa roba può essere offerta al pubblico, allora è giocoforza pensare che si sta osservando il meglio che esce da lì dentro. E questo potrebbe aprire un dibattito sulla qualità dell’insegnamento impartito dall’unica scuola teatrale di Stato.
La seconda disgrazia è l’idea che gli allievi-registi hanno, o hanno ricevuto, dello spettatore. Nella loro testa evidentemente il pubblico ha la proibizione di sedersi a godere lo spettacolo. Questo è il teatro della sofferenza, il sadomasoteatro, è il famoso teatro verticale perché il pubblico ha da stare due ore e mezza sulle sue gambe, o almeno questo era il progetto originario: cinque testi di Pasolini da mettere in scena in cinque ambienti diversi della Pelanda, con il pubblico interamente costituito di ercolini sempre-in-piedi pronti a scattare da un luogo all’altro. Poi qualcuno deve avere suggerito che non era il caso, che qualche sedia andava messa, che ci sono le vecchiette e le signore nervosette, c’è chi ama stare in pace e non vuol fare l’Aiace. Il rimedio è stato quasi all’altezza del male. Hanno piazzato un po’ di panche e un po’ di cubi dove sedersi ma rigorosamente di numero inferiore agli spettatori. Sicché a ogni transumanza il pensiero fisso del pubblico non era per le successive super prodigiose invenzioni sceniche degli allievi-registi ma per la conquista di un posticino, di un seggiolino, di uno strapuntino, pena la condanna delle proprie terga al pavimento. Inevitabile a un certo punto la voglia di sperimentare il baudelairiano diritto di andarsene, visto che per giunta quanto si vedeva in scena avvalorava l’ingiustizia della punizione. Tanto, come diceva un critico di tempi passati, il teatro è come un piatto di spaghetti: non c’è bisogno di arrivare all’ultima forchettata per sapere che è scotto.
Quanto a Pasolini, che non s’è visto e probabilmente se n’era andato anche lui, il suo nome non è una copertura assicurativa sul bene e il bello di un allestimento. Neanche dei registini d’accademia. Stavolta bastava persino la commedia nel cassetto di uno di questi “dramaturg” da master che certissimamente salveranno il teatro italiano.